
Arcilio,
ottant'anni suonati. Giunto alla vigilia dei sensi, ha piena
consapevolezza del tempo rimanente. Ѐ concentrato, teso e proteso
verso l'ultima esperienza: la morte. Ormai la sente su di sé già da
tempo quella stanchezza, quella pesantezza che qualcuno chiama
vecchiaia. Lui la percepisce come il pigro e fatale sopravvento della
morte che si intrufola nelle ossa, nella mente, ovunque. Ѐ
convinto che la morte, essendo assenza di vita, cominci molto prima
della chiusura definitiva delle palpebre. Arcilio è certo che, prima
o poi, dovrà cedere a quel fardello, a quell'Essere che gli
pesa sul groppone. Con stupore ogni mattina apre gli occhi perché la
sera li chiude dopo essersi fatto il segno della croce con la
certezza di non spalancarli mai più sul giorno successivo. Invece è
lì. Ancora vivo. E si palpa come a voler sondare, esperire ciò che
resta della sua vita. Ogni dì si presenta a lui come la fotocopia di
quello precedente: uguale! L'unica differenza è che ogni giorno la
sua rivale guadagna campo e come un tarlo rosica il resto dei suoi
giorni. La sua sveglia, quella interiore, suona puntuale alle
quattro: occhi spalancati, fissi in avanti, a cercare di carpire
quell'oscurità che ogni mattino gli regala. E non è solo oscurità,
è anche silenzio, solitudine, attesa, alienazione... Ecco, quella
routine, quella circostanza mattutina, quel tessuto esistenziale,
Arcilio lo percepisce come un'anticamera del suo definitivo morire,
ogni giorno, ore quattro, buio, silenzio... Solitudine! Quella è la
sua stanza d'attesa. Attesa di cosa? Ci sono persone che in balia
della corrente cercano irrazionalmente di resisterle e le si
oppongono energicamente, mentre per Arcilio l'unica cosa sensata e
contemplabile è quella di tirare un sospiro, fare il vuoto dentro e
lasciare che la corrente se lo porti via. Ma dove porta la corrente?
Dove il Vento spira o dove Volontà vuole? Non se lo chiede, attende
come chi attende nessuno. Come ogni mattina se ne sta sulla sua
panchina a godersi le prime ore del giorno. Il parco deserto, la
quiete. Inala profondi respiri. Assapora l'aria dolce e ruvida delle
miti giornate autunnali, quando sa di terra e foglie secche. La sente
infiammare le nari, contrarre le scapole, e quando poi defluisce,
accompagnata dalla spinta diaframmatica, farsi catarsi che si
ripropone uguale ad ogni ciclo, ad ogni respiro, come la sua vita. É
semplice aria! Eppure nell'aria c'è qualcosa di nuovo, di
inaspettato. Tanti piccoli presagi scandiscono il suo consueto
percorso. La vecchia Amelia, la venditrice di ciuf per i colombelli,
non c'è. Di solito si mette lì, davanti al cancello, come un
gendarme o per vendere ciuf o per estorcere monete con collaudate
drammatizzazioni esistenziali. Andrea l'americano, il vedovo
inconsolabile che da quindici anni ingrossa con le sue lacrime lo
stagno delle anatre, il primo a varcare il cancello del parco con il
suo passo punto e virgola - effetto coreografico della protesi lignea
che sostituisce mezza gamba destra- non è ancora nella sua consueta
postazione. Il parco sembra vuoto. Nemmeno Carogna, il cane di
nessuno, il custode del parco, ha preso servizio. Arcilio sembra non
accorgersi dell’infrangersi di quella routine, di quella
rappresentazione fittizia che da anni va in scena solo per lui.
Eppure uno strano mutarsi delle costanti quella mattina scorre sotto
i suoi occhi inosservato. C'è ma non lo vede. Eppure la sveglia non
ha suonato, il gallo non ha cantato, il postino non ha bussato. Tutto
sembra prendere una piega nuova e lui, come sempre, raggiunge la sua
solita panchina dove da vent'anni si siede ogni mattina con
l'espressione di chi è sopravvissuto a tutti, moglie, figli,
parenti, fatta eccezione del noce, che gli fa da ombra e da
confidente. Si siede e si meraviglia, solo adesso, della quiete che
tiene intorno. Poi inspiegabilmente avverte un senso di stanchezza,
poi uno sbadiglio ed infine un peso dimenticato sulle palpebre. Da
quanti anni non sognava! E mentre se ne sta lì, ad occhi chiusi,
sente improvviso un profumo. Inedito. Di sangue e carne. Di sterpo di
vite e umido. Di fichi e pampino. Di corteccia e bacca. Di terra e
foglie secche. A seguito un alito tiepido. Sbarra di soprassalto,
trasale gli occhi. Sparati in faccia due cristalli turchesi. Sono gli
occhi di Petronilla, mani di pesca. Gli siede in braccio. Così esile
da sembrare senza soma. Vestita d'estate, la sua giovane cute sembra
di porpora quando è cosparsa di polvere d'oro. Arcilio è
paralizzato e dallo spavento stringe gli occhi. Un caldo umido sulle
sue labbra gli fa salire la febbre. Sente pulsare le tempie e
gonfiarsi le vene ai polsi. Lei sugge forte il suo labbro inferiore e
poi, dopo qualche lusinghevole resistenza, sprofonda nella sua bocca
una valanga rosa inconsistente che sa di dattero maturo misto a un
pizzico di sale. È sogno o realtà? - pensa Arcilio mentre cerca di
vincere gli spasmi involontari del suo vecchio corpo che giungono
improvvisi a corredare le novità di quell'insolita mattinata. E
mentre sta per chiudere le palpebre per l'ultima volta, si accorge di
sentirsi ancora vivo, come non mai.