venerdì 23 febbraio 2018






Nera pece
che sotto la cute bolle
fonde l'anima arresa
e vinta esala.
Mi sanguina il naso
se mi scivola addosso
il tuo nero catrame.
E non vedo che nero
e non sento che caldo
e non voglio che perdermi
nel baratro di questa notte.




Per sgominare la democrazia dei rumori 
è necessario attribuire un ruolo al silenzio.


Zapping: questo Paese è diventato una prigione di pensieri, di parole, di chiacchiere tendenti all'intrallazzo. 

martedì 20 febbraio 2018






Non pronuncerò più il tuo nome
sotto un cielo stellato
non conterò più i tuoi capelli
nel vento di maestrale
non asciugherò più le tue lacrime di sale
nelle notti gravide di silenzio.
Non berrò più dal tuo seno
nei giorni d'arsura a bocca asciutta.
Ora indosserò il tuo nome e la tua pelle
e poi mi farò a brandelli
finché di me non resterai
che tu.

Germano Basile

sabato 17 febbraio 2018

Giovinezza





Arcilio, ottant'anni suonati. Giunto alla vigilia dei sensi, ha piena consapevolezza del tempo rimanente. Ѐ concentrato, teso e proteso verso l'ultima esperienza: la morte. Ormai la sente su di sé già da tempo quella stanchezza, quella pesantezza che qualcuno chiama vecchiaia. Lui la percepisce come il pigro e fatale sopravvento della morte che si intrufola nelle ossa, nella mente, ovunque. Ѐ convinto che la morte, essendo assenza di vita, cominci molto prima della chiusura definitiva delle palpebre. Arcilio è certo che, prima o poi, dovrà cedere a quel fardello, a quell'Essere che gli pesa sul groppone. Con stupore ogni mattina apre gli occhi perché la sera li chiude dopo essersi fatto il segno della croce con la certezza di non spalancarli mai più sul giorno successivo. Invece è lì. Ancora vivo. E si palpa come a voler sondare, esperire ciò che resta della sua vita. Ogni dì si presenta a lui come la fotocopia di quello precedente: uguale! L'unica differenza è che ogni giorno la sua rivale guadagna campo e come un tarlo rosica il resto dei suoi giorni. La sua sveglia, quella interiore, suona puntuale alle quattro: occhi spalancati, fissi in avanti, a cercare di carpire quell'oscurità che ogni mattino gli regala. E non è solo oscurità, è anche silenzio, solitudine, attesa, alienazione... Ecco, quella routine, quella circostanza mattutina, quel tessuto esistenziale, Arcilio lo percepisce come un'anticamera del suo definitivo morire, ogni giorno, ore quattro, buio, silenzio... Solitudine! Quella è la sua stanza d'attesa. Attesa di cosa? Ci sono persone che in balia della corrente cercano irrazionalmente di resisterle e le si oppongono energicamente, mentre per Arcilio l'unica cosa sensata e contemplabile è quella di tirare un sospiro, fare il vuoto dentro e lasciare che la corrente se lo porti via. Ma dove porta la corrente? Dove il Vento spira o dove Volontà vuole? Non se lo chiede, attende come chi attende nessuno. Come ogni mattina se ne sta sulla sua panchina a godersi le prime ore del giorno. Il parco deserto, la quiete. Inala profondi respiri. Assapora l'aria dolce e ruvida delle miti giornate autunnali, quando sa di terra e foglie secche. La sente infiammare le nari, contrarre le scapole, e quando poi defluisce, accompagnata dalla spinta diaframmatica, farsi catarsi che si ripropone uguale ad ogni ciclo, ad ogni respiro, come la sua vita. É semplice aria! Eppure nell'aria c'è qualcosa di nuovo, di inaspettato. Tanti piccoli presagi scandiscono il suo consueto percorso. La vecchia Amelia, la venditrice di ciuf per i colombelli, non c'è.  Di solito si mette lì, davanti al cancello, come un gendarme o per vendere ciuf o per estorcere monete con collaudate drammatizzazioni esistenziali. Andrea l'americano, il vedovo inconsolabile che da quindici anni ingrossa con le sue lacrime lo stagno delle anatre, il primo a varcare il cancello del parco con il suo passo punto e virgola - effetto coreografico della protesi lignea che sostituisce mezza gamba destra- non è ancora nella sua consueta postazione. Il parco sembra vuoto. Nemmeno Carogna, il cane di nessuno, il custode del parco, ha preso servizio. Arcilio sembra non accorgersi dell’infrangersi di quella routine, di quella rappresentazione fittizia che da anni va in scena solo per lui. Eppure uno strano mutarsi delle costanti quella mattina scorre sotto i suoi occhi inosservato. C'è ma non lo vede. Eppure la sveglia non ha suonato, il gallo non ha cantato, il postino non ha bussato. Tutto sembra prendere una piega nuova e lui, come sempre, raggiunge la sua solita panchina dove da vent'anni si siede ogni mattina con l'espressione di chi è sopravvissuto a tutti, moglie, figli, parenti, fatta eccezione del noce, che gli fa da ombra e da confidente. Si siede e si meraviglia, solo adesso, della quiete che tiene intorno. Poi inspiegabilmente avverte un senso di stanchezza, poi uno sbadiglio ed infine un peso dimenticato sulle palpebre. Da quanti anni non sognava! E mentre se ne sta lì, ad occhi chiusi, sente improvviso un profumo. Inedito. Di sangue e carne. Di sterpo di vite e umido. Di fichi e pampino. Di corteccia e bacca. Di terra e foglie secche. A seguito un alito tiepido. Sbarra di soprassalto, trasale gli occhi. Sparati in faccia due cristalli turchesi. Sono gli occhi di Petronilla, mani di pesca. Gli siede in braccio. Così esile da sembrare senza soma. Vestita d'estate, la sua giovane cute sembra di porpora quando è cosparsa di polvere d'oro. Arcilio è paralizzato e dallo spavento stringe gli occhi. Un caldo umido sulle sue labbra gli fa salire la febbre. Sente pulsare le tempie e gonfiarsi le vene ai polsi. Lei sugge forte il suo labbro inferiore e poi, dopo qualche lusinghevole resistenza, sprofonda nella sua bocca una valanga rosa inconsistente che sa di dattero maturo misto a un pizzico di sale. È sogno o realtà? - pensa Arcilio mentre cerca di vincere gli spasmi involontari del suo vecchio corpo che giungono improvvisi a corredare le novità di quell'insolita mattinata. E mentre sta per chiudere le palpebre per l'ultima volta, si accorge di sentirsi ancora vivo, come non mai.